Eveline come Salima?

I ragazzi della 2D devono leggere, comprendere e analizzare il famoso racconto “Eveline”, tratto dai Dubliners di J. Joyce, in cui una ragazza irlandese, che aveva sacrificato tutta l’adolescenza nell’accudire un padre violento e due fratelli, finalmente si trova davanti alla possibilità di rifarsi una vita col fidanzato Frank, giovanotto buono e forte, che vuole emigrare in Argentina e compra un biglietto del piroscafo anche per lei. 

Per fare un po’ di esercizio in previsione delle imminenti prove Invalsi, vengono inserite anche delle inesorabili domande a risposta multipla, come la n° 10: qual è il momento di spannung (=massima tensione) del racconto? La risposta è unanime: 

la A. Alla fine, alla stazione, dove Eveline, incredibilmente, non riesce a salire sul piroscafo, e non perché la gente la spinga altrove o lei stessa perda il salvifico biglietto, ma proprio perché non ce la fa: Tutti  i mari del mondo le si infrangevano sul cuore. (…) No! No! No! Era impossibile. (…) Volse verso di lui la faccia pallida, passiva, come un povero animale impotente. 

La domanda n° 4 aveva già chiarito: da cosa è profondamente condizionata la scelta finale di Eveline? 

La risposta esatta è la C: dalla promessa fatta alla madre morente di tenere insieme la famiglia finché avesse potuto, scelta dalla quasi totalità degli studenti.

E se invece fosse la D: dal pensiero di trasferirsi lontano?

Proprio ieri sulla Stampa è stato pubblicato un bell’articolo di Fariza Dudarova, giornalista di Novaya Gazeta, il giornale di Anna Politkovskaja, che dal 1993 ha raccontato le guerre cecene. 

Che sia il momento giusto per leggerlo in classe?

Salima ha dovuto lasciare la sua città natale, Grozny, nell’aprile del 1995, al culmine della prima guerra cecena. All’inizio della guerra aveva 20 anni, aveva studiato all’università statale cecena come ostetrica-ginecologa. Parla della sua casa con amore, ricorda nei minimi dettagli com’era: i cespugli di acacia e lillà nel cortile, il colore della panchina che stava sotto di loro, il suono con cui si apriva il cancello verde. “E’ così strano: vivo in un posto diverso da quasi 27 anni, ho dovuto cambiare più volte il mio luogo di residenza e non ho sentito nessuno di questi luoghi come casa. Non riesco a ricordarne nessuno in modo così dettagliato come la mia casa a Grozny” dice. Salima è la maggiore di 5 figli, (…) i suoi genitori non avevano intenzione di lasciare la loro repubblica né di andare da nessuna parte. Non hanno fatto progetti fino a che non è morto il padre. “Papà un giorno è andato dai nostri vicini per aiutarli a riparare il tetto, che era stato colpito da una granata. E’ caduto un altro proiettile e ha colpito di nuovo quel tetto…ero con i mei parenti quel giorno e quando me ne hanno parlato, non ci credevo. Pensavo fosse uno scherzo stupido. Ma com’è possibile? Un uomo va a riparare un tetto che è stato colpito da un proiettile ed esattamente in quel momento il proiettile lo colpisce di nuovo…”? Salima inizia a piangere, parlandone. La decisione di partire l’hanno presa lei e sua madre, l’unica possibilità era quella di raggiungere dei parenti che vivevano in Inguscezia. La famiglia di Salima ha iniziato a raccogliere le sue cose il settimo giorno dopo la morte del padre. “Era molto diffcile. La casa che avevamo costruito con tanto amore; la casa dove nostri nonni, sopravvissuti alla deportazione del 1944, si sentivano finalmente al sicuro; la casa in cui tutto ricordava papà, doveva essere lasciata in fretta. Non sapevo se sarei tornata o no. Ma ricordo molto bene a cosa stavo pensando: diavolo, a maggio sarebbe sbocciato il lillà, ma io non lo vedrò” ricorda. Salima conserva ancora le cose che ha portato con sé da Grozny: lo specchietto di sua nonna, un vestito di spugna, l’abito da sposa di sua madre e il coniglio di peluche della sorella più piccola. “La mamma ha detto: – Salima, prendi la cosa più importante. Lei, come i nostri antentati, faceva dei fagotti con le lenzuola, dove metteva farina, zucchero, cereali, vestiti. Ero stupida e avevo 20 anni, quindi ho pensato che avrei dovuto prendere dei cimeli, mentre mia madre si occupava delle cose importanti, da adulta responsabile. Ho preso il taccuino di mio padre, l’abito da sposa di mia madre, lo specchio di mia nonna…Era uno strano “set da rifugiato”. Ma ora mia madre mi ringrazia per questo. Vive in Germania, le ho dato tutte queste  cose, sono l’unico collegamento con la nostra vita passata, buona e spensierata. (…) Quando guardo i condomini distrutti a Mariupol, i miei pensieri corrono immediatamente alla mia città, uguale. Tutti questi milioni di persone, a quanto pare, proveranno, come me, per tutta la vita, il sentimento di non avere mai più una casa”. (Liberamente tratto da: https://www.lastampa.it/esteri/2022/05/04/news/fuga_dalle_guerre_di_putin-3253218/)

C’è silenzio tra i banchi. L’Eveline di Joyce forse non aveva passato fino ad allora una vita buona e spensierata, eppure La sua casa! Si guardò attorno nella stanza fissando a uno a uno gli oggetti familiari che in tutti quegli anni aveva spolverato regolarmente una volta alla settimana, domandandosi sempre da dove potesse venire tanta polvere. Forse non li avrebbe più rivisti quegli oggetti, dai quali mai aveva immaginato di doversi separare un giorno…”.

In questa classe non ci sono studenti ucraini, ma già incrociare lo sguardo dei ragazzi moldavi ingroppa il cuore. Speriamo che queste pagine di letteratura, superstiti al massacro delle risposte a scelta multipla, riescano a fare quel che devono: parlare con delicatezza al loro, di cuore, così preoccupato per i nonni, gli zii, i cugini lontani.

m.c.

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