Quando, per gli altri, si tradisce se stessi

Ho tenuto persone nella mia vita che non mi facevano stare bene e che avrei dovuto allontanare subito, ma, pur di
non ferirle, ho scelto di ferire me. Nonostante si abbia questa consapevolezza, ogni volta è difficile e doloroso sapersi
ascoltare e scegliere di conseguenza.
A. P.

I miei genitori un giorno hanno deciso di trasferirsi qui, in Italia, per noi, i figli, per darci un futuro migliore (rispetto a
quello che potevano trovare nel nostro paese di origine). Dette, queste cose, sembrano facili, però non è così: si fa
tanta fatica. Venire proprio in un altro mondo, senza sapere ciò che può accadere è un’esperienza davvero forte;
senza sapere la lingua e comunque riuscire a costruire di nuovo una vita felice è un’impresa! Nonostante le difficoltà i
miei genitori ce l’hanno fatta.
A volte mi chiedo: forse non volevano, forse lasciare tutto dietro di sé (i parenti, gli amici, tutta la loro vita) non era
quello che volevano, ma pur di scappare dalla povertà, dalle condizioni in cui non avrebbero potuto costruire un
futuro, ci hanno provato. L’hanno deciso insieme perché ciò che riguarda i figli è una priorità e per loro è sempre
stato così.
Sono molto grata per tutto ciò che hanno fatto. Chissà cosa hanno provato in questi anni, posso solo supporlo, anzi,
non lo saprò mai perché c’è sempre il sorriso che li accompagna e che mi dà più indicazione per avanzare e
raggiungere i miei obiettivi.
D. V.

Due anni fa una mia amica mi aveva regalato Luna, una siamese appena nata a cui mi sono affezionata in tempo zero.
All’inizio, essendo piccola, era molto curiosa e si andava a infilare ovunque, ma crescendo ha cominciato a fare
diversi pasticci, come rompere oggetti delicati, giocare di notte e miagolare in continuazione.
I miei genitori, ormai stanchi e nervosi per la situazione, ad un certo punto mi dissero che dovevo assolutamente
darla a qualcun altro perché loro non avevano intenzione di sopportarla neanche un mese di più ed è stato proprio in
quel momento che ho tradito me stessa e ho acconsentito. Iniziai a cercare tra le mie conoscenze delle persone
adatte a Luna, ma al solo pensiero di non vederla più davanti alla porta ad aspettarmi quando tornavo da scuola, o
sul mio letto a dormire, mi si stringeva lo stomaco. Piansi per giorni, ma continuai a cercare una famiglia pronta a
farla star bene. Eppure nessuno conosceva Luna come la conoscevo io, nessuno l’avrebbe amata come l’amavo io.
Così alla fine presi coraggio e andai a parlare ai miei genitori che stavano seduti in cucina e buttai fuori quello che mi
tenevo dentro da tanti giorni. I miei fortunatamente mi capirono e io finalmente tornai a respirare senza più peso sul
petto. Mi avevano fatto credere che non fossi in grado di amare Luna.
N. L.

Qualche anno fa ho visto un ragazzo della mia classe fare il figo per conquistare una ragazza. All’inizio pensavo
durasse poco, con qualche storia inventata, e invece la cosa durò molto di più.
I primi giorni in cui l’avevo conosciuto era molto aperto con me. Mi parlava normalmente della sua famiglia e dello
sport che amava. Qualche settimana più tardi notai che il mio amico iniziava a socializzare con la classe, specialmente
con le ragazze. Da lì capii che aveva preso una cotta per una di loro. Non era un problema, visto che è normale
innamorarsi alla nostra età. Poi, però, il mio compagno decise di sedersi a fianco della ragazza in questione e non più vicino a me.

Parlavano molto e io riuscivo a sentire soltanto qualche parola. I giorni seguenti iniziai ad ascoltare le
loro conversazioni con più attenzione e capii che quello che pensavo prima del mio amico stava cambiando del tutto.
Quando lo avevo conosciuto io sembrava una persona qualunque, normale, che praticava sport, alla mano, ma dopo
diventò tutto ciò che non mi sarei mai immaginato. Parlava di minacciare i più grandi col suo coltellino e di fare il
vandalo in strada… Non lo riconoscevo più.
Qualche mesetto dopo, la sua compagna di banco iniziò a riferire alle amiche le storie che lui le raccontava, però gli
aneddoti girarono in fretta per tutta la classe e alcuni ragazzi iniziarono a prenderlo in giro.
Io in quel momento non potevo più fare nulla: rimasi lì, fermo, a guardarlo bullizzato.
B. A.

Sono un ragazzo che, fin da piccolo, ha sempre avuto la testa sulle spalle, non ascoltavo gli altri e non li imitavo in ciò
che facevano. Non sono mai stato uno che cerca di seguire la massa solo per piacere, preferisco stare da solo. Questo
mio modo di pensare, però, con l’inizio delle superiori e la conoscenza dei miei nuovi compagni di classe, cambiò:
avevo capito che per il mio modo di fare ero considerato strano e la cosa non mi andava troppo giù. Col passare del
tempo ero diventato una “preda” per quelli che in classe facevano più casino: mi lanciavano oggetti durante la
lezione, frugavano e rubavano quello che trovavano nel mio zaino e spesso alzavano le mani. Io in tutto questo ero
solo. Quello che non capivo era il perché, perché a me, cosa avevo fatto di male, ero sempre stato gentile con tutti
ed è così che venivo ripagato? Non ho mai detto niente a nessuno, me ne vergogno tanto. Alla fine del secondo anno
scolastico decisi di cambiare scuola e anche il mio modo di pensare, cercando di evitare la situazione della classe
precedente. Funzionò, ma diventai quello che fin da piccolo avevo sempre voluto evitare: ero diventato come loro.
E. L.

Da piccola lo sport che più ho amato è stato il pattinaggio. Avevo sette anni la prima volta che ho indossato un paio
di pattini e da quel giorno non me li sono più tolti. Negli ultimi anni ho partecipato a molti campionati italiani: mi
allenavo sei giorni alla settimana e spesso anche due volte al giorno. Nonostante tutti i sacrifici, come per esempio
trascurare le amicizie e la scuola, ogni volta che indossavo i miei pattini tutti i problemi intorno a me sembravano
sparire.
A ferragosto dell’anno scorso, però, i miei genitori si sono separati ed io ho cominciato a sentire un mix di emozioni
dentro di me. Da quel giorno, ogni volta che andavo ad allenamento, prima di entrare in pista, mi chiudevo in bagno
e cominciavo a piangere, perché non volevo più essere lì dopo la loro separazione, mi allenavo solo per non deludere
mio papà.
Ad un certo punto, dopo sei mesi passati così, ho preso coraggio e gli ho detto che volevo smettere. Dopo una lunga
litigata e una settimana senza calcolarmi, solo per farmi sentire in colpa, finalmente anche lui ha deciso di accettare
questa mia decisione. Ancora oggi, però, nelle discussioni tira fuori l’argomento del pattinaggio, pur sapendo che è la
cosa che mi fa stare più male.
A. M.

Dopo un anno passato a prendere brutti voti senza impegno né voglia, sono stato bocciato. Così per darmi da fare
dopo questa grande delusione ho deciso di andare a lavorare nell’azienda agricola di mia mamma e dei miei zii.
Nel corso dell’estate sono stato sempre occupato e mi è piaciuto, ci sono andato con molta voglia e felicità. Sbrigavo
diverse faccende, ero sempre disponibile con tutti, sia che ci fosse da fare con le mucche, coi maiali o con le trote.
Una cosa sola mi pesava: nell’allevamento di trote, ogni venerdì, veniva svolta la pulizia delle griglie che separano le
diverse vasche. Questo lavoro consiste nel pulire a fondo ogni griglia dallo sporco e da eventuali trote morte con una
lunga spazzola di ferro. E’ piuttosto lungo, ci si impiega ca 2-3 ore, e sotto il sole era davvero duro.
Così, il venerdì mattina, alle 8.30 ca, arrivava quella chiamata di mio zio, che puntualmente mi chiedeva se facevo
proprio quel lavoro! Per me era un incubo ogni volta, il tempo non passava più, la stanchezza aumentava e la voglia
diminuiva. Avrei fatto qualsiasi altra cosa, piuttosto, ma sentivo che per mio zio, sapermi lì con lui, era un orgoglio,
che lo facevo molto felice. Ripeteva spesso che era molto contento e mi ringraziava davvero tanto dell’aiuto che gli
davo. Così soffrivo e sudavo tutta la mattina per vedere una persona cara felice e orgogliosa di me e ogni venerdì ero
lì, pronto a tradire me stesso.
F. R.

Se ho tradito me stesso per non deludere qualcuno? Sì, ma penso che in molti siano d’accordo con me su ciò che sto
per raccontare. In realtà non l’ho neanche fatto una sola volta, anzi, sto tradendo me stesso anche ora, proprio
mentre scrivo questo testo.
Il mio tradire me stesso è andare a scuola. Non l’ho mai deciso, non mi è mai importato né interessato veramente,
ma in ogni caso dovevo e devo; perché alla fine non vuoi deludere le aspettative dei tuoi genitori o almeno non puoi.
Questo è ciò che penso, mentre vado a scuola, perché aprire un libro, per poi dover stare attento in classe e seguire
la lezione per una verifica o interrogazione futura, non mi dà soddisfazione nella vita, anzi, mi crea stati emotivi più
brutti che belli.
Sì, certamente, l’istruzione, quello che alla fine di tutto il ciclo ti ritrovi, è importante, ma lo stress, la noia, la rabbia,
la tristezza o anche la paranoia che se ne ricavano ti fanno dire: ma ne vale veramente la pena?
Alla fine continuerò gli studi fino al diploma, ma penso che comunque la scuola dovrebbe aiutarti a inseguire i tuoi
sogni e non a limitarli o mortificarli.
E. A.

C’è una situazione in particolare che ha influenzato la mia vita sin da bambina. Ho sempre cercato di rendere fieri di
me i miei genitori, soprattutto nell’ambito scolastico. Ero quella ragazzina che piangeva per un brutto voto, ma non
perché ero delusa da me stessa, ma perché sapevo che, anche se avevo dato il massimo, i miei non avrebbero mai
capito tutto l’impegno che ci avevo messo.
Purtroppo mia madre, per via della mia nascita, non riuscì a proseguire gli ultimi anni di studio e i miei furono
“costretti” a trasferirsi qui in Italia in cerca di un futuro migliore. Man mano che io crescevo, lei cercò di farmi
appassionare a tutto ciò che era legato alla scuola, soprattutto a quello che era il suo sogno, ovvero, in un futuro, agli
studi di giurisprudenza, quelli che lei non era riuscita a concludere.
Mi ha pressato per anni, ma con il tempo ho provato a farle capire che io non ero lei e che, quando fosse arrivato il
momento, avrei deciso io il mio percorso. Questi sforzi, però, non sono serviti a molto perché ancora oggi mia
mamma prova a dirmi cosa vorrei che io facessi, ma ho imparato ad ascoltare me stessa e a fare ciò che mi sento.

So che lei vuole il meglio per me, ma c’è un limite e bisognerebbe cercare un compromesso che faccia stare tranquille
entrambe.
Dobbiamo sempre ascoltare ciò che la nostra testa e il nostro cuore vogliono perché gli unici che ci conoscono
veramente siamo noi stessi, siamo noi a saper misurare le nostre potenzialità, le nostre capacità, i nostri punti deboli
e soprattutto a intravedere quello che ci renderebbe felici. Spesso, quando ci troviamo davanti a situazioni del
genere, tendiamo a soddisfare, a dire, a fare ciò che gli altri si aspettano, finendo così per creare una nuova versione
di noi stessi, quella che gli altri vogliono. Se chi ci sta vicino tiene a noi davvero, riuscirà a comprendere e ad
accettare quello che vogliamo, pur di vederci felici.
Infine voglio ricordare che è giusto anche sbagliare, perché è così che capiremo meglio ciò che vogliamo veramente.
I. P.

Mi fece molto effetto la storia che un’amica di mia mamma ci raccontò una sera a cena da noi (lei è simpatica e mi fa
sempre ridere). Quella sera io non l’ho riconosciuta, ho visto un’altra donna. Subito non ho prestato attenzione al
racconto, ma poi il suo tono ha catturato la mia attenzione: esprimeva il dolore di una persona che si era rinchiusa in
sé stessa per compiacere un rapporto, in questo caso quello con suo marito, che l’aveva costretta a lasciare il lavoro
alle prime gravidanze e fare la donna di casa, nonostante lei volesse lavorare e avere un ruolo importante nella
famiglia. Voleva essere indipendente economicamente, ma non riusciva a dirgli quello che desiderava, pensava di
deluderlo. Così pian piano non si era più sentita una persona, ma solamente una moglie che mandava avanti le
faccende di casa. Si era dedicata così tanto agli altri che aveva abbandonato tutte le sue passioni, come banalmente
seguire le partite di pallavolo o uscire per un aperitivo con le amiche.
Alla fine di questo racconto ho capito che alcuni compromessi, che si fanno dappertutto, in famiglia come sul lavoro,
bisogna accettarli, però con dei limiti, perché bisogna preservarsi sempre e non annullarsi.
A. M.

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